Lettera Aperta al Vice-Ministro Lorenzo Fioramonti

Onorevole Fioramonti,
vogliamo cogliere l’occasione delle sue recenti dichiarazioni per farle presente il nostro punto di vista sulla questione del precariato nelle Università Italiane.

Come associazione dei ricercatori a tempo determinato, il nostro punto di vista potrebbe essere ritenuto da alcuni “parziale”, ma sicuramente le permetterà di dare uno sguardo dall’interno ad un mondo, quello della ricerca precaria, che in questi ultimi anni ha sofferto particolarmente.

Cominciamo da un ringraziamento. Siamo lieti che uno dei primi provvedimenti del suo governo sia stato un piano di reclutamento per più di 1.500 ricercatori a tempo determinato “RTDb” che, come ben sa, hanno la possibilità di essere stabilizzati al termine del loro triennio, diventando professori associati.

Tale numero però, come discuteremo in seguito, è inferiore sia alle necessità del sistema universitario, sia ai bisogni delle migliaia di ricercatori che anelano ad una stabilità lavorativa.

Il problema fondamentale del reclutamento in Italia, in realtà, può essere compreso proprio partendo dal fatto che negli ultimi anni sono stati necessari tre piani di reclutamento di RTDb. In un’Università ben funzionante il reclutamento dovrebbe essere un processo periodico e naturale, e non dovrebbe richiedere interventi particolari da parte del governo.

Per capire l’origine di questo paradosso è necessario andare indietro del tempo di una decina di anni, quando i nostri Atenei sono stati interessati da due eventi di estrema rilevanza: la legge n. 240/2010, nota come “Riforma Gelmini”, ed il lungo blocco del turnover.

In particolare, la legge Gelmini cancellava la figura del ricercatore universitario a tempo indeterminato (RTI), sostituendola con due figure di ricercatori a tempo determinato (RTDa e RTDb), con un’unica sostanziale differenza tra le due: solo gli RTDb hanno la possibilità di essere stabilizzati al termine del proprio contratto; gli RTDa, finito il contratto (di durata fino a 5 anni totali) se ne tornano a casa.

Per completezza bisogna ricordare che nella categoria dei ricercatori usa-e-getta rientrano anche altre figure (assegnisti, contrattisti, borsisti, ecc.) tutte caratterizzate da forme contrattuali con ancora minori tutele e diritti. Ad esempio, è solo una conquista recente che gli assegnisti possano godere di un’indennità di disoccupazione al termine del loro contratto.

Questa lettera aperta non è il luogo adatto per discutere i nefasti effetti che la precarizzazione dei ricercatori ha avuto, e continua ad avere, sulla loro effettiva capacità lavorativa e sulle loro vite. Ad ogni modo, il fatto che il percorso per la stabilizzazione di un ricercatore possa prevedere 12 (ma anche più) anni di precariato dopo aver acquisito il titolo di Dottore di ricerca ci sembra un’assurdità. Tanto più che dopo i 12 anni di sfruttamento il povero ricercatore, ormai più che quarantenne, può esser semplicemente mandato a casa.

Ad ogni modo, nei primi anni dopo l’introduzione della legge Gelmini, il numero di posizioni come RTDb bandito è stato estremamente limitato. Questo fenomeno ha avuto una duplice motivazione: da una parte il blocco delle assunzioni, dall’altra il fatto che il mondo accademico ha sempre guardato con poco celato disprezzo alla figura degli RTDb, accusati di effettuare il “sorpasso a destra” nei confronti degli RTI.

Allo stato attuale, nel corso degli ultimi 10 anni, sono stati reclutati solo circa 4.000 RTDb, quasi tutti attraverso piani di reclutamento straordinari. Praticamente, gli Atenei ne hanno reclutato qualcuno solo quando sono stati costretti a farlo, preferendo spendere le proprie limitate facoltà assunzionali in passaggi di carriera e nel reclutamento delle già citate figure di ricercatori usa-e-getta.

L’Università italiana ha quindi perso, nell’arco di un decennio, oltre il 20% del personale di ruolo, la cui assenza è stata compensata dalla creazione di un esercito di precari, che ammonta oggi a circa 40.000 persone, che si barcamenano tra contratti lavorativi poco dignitosi e periodi anche lunghi si disoccupazione.

Tornando ora alle sue dichiarazioni in merito ad una prossima riforma delle figure preruolo, ci permetta di entrare nel dettaglio con alcuni suggerimenti, formulati da chi, come detto prima, il mondo del precariato lo conosce dall’interno.

Punto primo: unificare e semplificare.
A meno che non venga ripristinata la figura del RTI, ci vuole un unico contratto di ricercatore a tempo determinato, e che preveda una forma di tenure-track. La nostra proposta è quella di abolire i RTDa e di avere un unico contratto simile all’attuale RTDb, ma su una durata di 3+3 anni. Se il ricercatore guadagna l’abilitazione scientifica entro la fine del primo triennio entra di ruolo come professore associato, altrimenti ha un altro triennio per abilitarsi.

Basta contratti da “binario morto”. Un giovane neo-dottore di ricerca ha diritto ad avere davanti a sé una strada da percorrere, un percorso lavorativo dignitoso e dai tempi certi, dove l’unica cosa che conta è il suo impegno. Una figura del genere sarebbe adeguata anche ad un ricercatore con più anni di esperienza alle spalle, che potrebbe aspirare ad una stabilizzazione in tempi rapidi.

Solo con la prospettiva di una figura di questo tipo siamo d’accordo con la sua dichiarazione che “il ricercatore avrà massimo 5 o 6 anni di precariato”: il giovane che inizia la carriera accademica deve sapere che c’è un posto per lui, non deve scoprirlo dopo 5 anni. Altrimenti si tratterebbe solo di riproporre con una diversa veste quello che è ora la figura di RTDa, e di eliminare il precariato eliminando i precari.

Punto secondo: impedire gli abusi di contratti precari. Ci rendiamo conto che è praticamente impossibile abolire le altre figure precarie (assegnisti, contrattisti, borsisti, ecc.), che sono indispensabili per poter rispondere alle esigenze di un aumento temporaneo della forza lavoro (si pensi ad un progetto di ricerca o un contratto industriale). Che siano riunite anche in questo caso in un’unica figura di ricercatore a contratto, di breve durata (1-3 anni) e con tutte le tutele lavorative.

È inoltre fondamentale che di tali figure ne sia vietato l’abuso. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di impedire o limitare fortemente l’utilizzo di tali figure per la didattica dei corsi: se un Ateneo ha delle esigenze didattiche deve impiegare figure con tenure!

Punto terzo: i fondi. L’Università ha bisogno di interventi di ampio respiro, di un piano di reclutamento pluriennale. Per ripristinare l’organico ai livelli del 2009 sarebbero necessari 4.000 nuovi ricercatori in tenure all’anno per cinque anni. La certezza di un finanziamento “stabile” potrebbe permettere una serena ed armonica programmazione negli Atenei, dando una risposta alla moltitudine di precari in attesa di una legittima stabilità lavorativa.

L’attuazione di questi tre punti, ci preme sottolinearlo, non avrebbe la pretesa di risolvere tutte le problematiche dei nostri Atenei, ma sicuramente darebbe nuova linfa ad un’istituzione fondamentale per la crescita del paese.

Un’ultima nota. L’Università è un corpo vasto, complesso e molto più sano di quanto molti detrattori vogliono far credere. Ha già subito, imposti dall’alto, tanti stravolgimenti. Le chiediamo di discutere sempre del futuro dell’università con coloro che ne fanno parte, partendo da CUN, associazioni e sindacati. Come ARTeD noi siamo disponibili a confrontarci su questi ed altri temi quando vuole.

2 Aprile 2019


Il Consiglio Direttivo di ARTeD
Associazione dei Ricercatori a Tempo Determinato


Pubblicato

in

da

Tag: